HUNGRY HEART

I colleghi di Cardamone erano diventati, col tempo, dei veri bastardi, induriti dal senso di sconfitta che tirava fuori il peggio di loro, guidati da bassi istinti e da una forte dose di cattiveria gratuita. Più il destino li castigava, più si accanivano sui colleghi che stavano inguaiati peggio di loro, che pativano una sofferenza imposta dai tempi e dalla malvagità connessi alle relazioni umane. Quelle canaglie sapevano picchiare duro sulle ferite sanguinanti. Da perfette carogne.

Soprattutto Antonio, un quarantenne di Gianturco. La vita era stata particolarmente dura con lui, e il suo sport preferito, quello in cui riusciva meglio, era scaricare sugli altri il proprio senso di paralizzante insoddisfazione. Quello di chi fa finta di non sapere i fatti, ma s’insinua in delicate faccende private con la stessa sgradevolezza di un viscido ratto che s’infila in un appartamento, approfittando di un pertugio invisibile, strisciando in un anfratto indifeso tra il cemento scrostato, sgattaiolando tra tubi marciti o sfruttando l’incauta apertura di un balcone o di una finestra, e disseminando ovunque, con irritante prepotenza, il suo ripugnante olezzo, capace di infestare ogni cosa con quella terribile scia di pericolosi microbi di cui è letale portatore.

«Boss, vai con tua moglie a sentire Springsteen stasera?».

Cardamone avrebbe voluto ricordargli le origini poco nobili dei suoi defunti. Fuor di metafora, la mamma di Antonio aveva egregiamente esercitato il mestiere più antico del mondo dalle parti della ferrovia. A piazza Garibaldi, negli anni Settanta, era una vera e propria leggenda. Negli ambienti dei pendolari la chiamavano gola profonda per omaggiarne il talento indiscusso. In circumvesuviana aveva la stessa fama di un calciatore del Napoli o di un personaggio della televisione. C’era chi arrivava dalle parti della stazione solo per lei, per testarne le qualità. Poi, all’inizio degli anni Ottanta, la malattia, i rapporti non protetti, innumerevoli e fatali. E da uno di questi nacque Antonio. Infine, l’Aids. Il calvario, breve ma doloroso. La scomparsa. La vergogna e la disapprovazione sociale che ne seguirono accompagnarono Antonio per il resto della sua dannata esistenza.

“Quel grandissimo figlio di puttana – pensò Cardamone – si voleva rifare con gli interessi, rosicchiare la discrezione, erodere la dignità, cibarsi della miseria altrui per fuoriuscire, di tanto in tanto, dalla fogna in cui il basso lignaggio lo aveva relegato. E voleva farlo con quella malvagità che è solo dei mediocri, dei meschini, degli sconfitti”.

Decise di non cadere nella provocazione. Non gli rispose nemmeno. Non lo degnò neanche di uno sguardo. Si allontanò, e sputò con disprezzo, girando leggermente il capo a sinistra, i residui di nicotina che gli erano rimasti in gola. Si avviò verso l’autobus, mentre Antonio insisteva, con quella risata da ebete che rimbombava oscenamente tra il metallo arrugginito.

Lo spalleggiava Pasquale. Un brav’uomo, ma succube della suocera e dei buffoni che si atteggiavano a gradassi. Dotato di poca personalità, si accontentava di trascorrere le giornate al deposito degli autobus a giocare a tresette con gli autisti che aspettavano il loro turno. Campava con la pensione d’invalidità della moglie, che aveva subito l’amputazione di entrambe le gambe per colpa di un macchinario impazzito, souvenir di quando lavorava in un’industria siderurgica.

Cardamone non si curò nemmeno di lui. Pensò che già il destino si era accanito abbastanza su quell’invertebrato, senza che fosse necessario rincarare la dose. Ogni giorno si faceva fottere i soldi da quegli scaltri giocatori di carte che si mettevano d’accordo per raggirarlo. Era un deficiente. Un cretino. Un imbecille. Un monumento all’idiozia. Non ritenne opportuno rimarcalo. Tutto sommato, quel giorno, si sentiva moderatamente euforico. Salì a bordo. Iniziò a fischiettare Hungry Heart.

Come una rivelazione fulminea, si ricordò che quel giorno era pure il suo compleanno. Era nato il 23 maggio del 1949. Lo stesso anno di Springsteen, che però era venuto al mondo il 23 settembre.

Bruce nel New Jersey, lui intrappolato nella periferia della periferia. Nella provincia della provincia. Nel sottobosco del progresso. Condannato a tenersi a galla ai confini della civiltà, a sopravvivere ai margini del mondo.

 

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(Tratto dal racconto “Ai margini della città”, pubblicato all’interno della raccolta “Pausa dal dolore”).

 

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