IL POPOLO CHE SA RIMANDARE LE LACRIME

Ci sono luoghi in cui le profonde ferite del recente passato non si sono ancora cicatrizzate, continuano a grondare sangue. Il ricordo dell’orrore è ancora vivo e le colpe non sono state ancora espiate. Proprio per questo, l’anima argentina è estremamente complessa, conosce la resa ma pure la reazione, le sconfitte che si trasformano in occasioni di rivincita, l’ostinazione di sopravvivere alle disgrazie, alle dittature e alle guerre che ne hanno mortificato l’orgoglio.

Il libro “Dio si è fermato a Buenos Aires” (pagg. 176, Edizioni Laterza) di Marco Marsullo e Paolo Piccirillo è un racconto in presa diretta che si dipana sulle macerie della storia, alternando momenti scanzonati ad altri di capillare ricostruzione degli avvenimenti. Si parte dalla vicenda di uno dei migliaia di argentini in cerca di identità, figlio di una desaparecida, strappato ai propri genitori naturali e trapiantato in una famiglia di militari, che, in Argentina, oltre alla democrazia, hanno rubato pure le origini e i diritti più elementari.

Quella di Videla, infatti, è stata una delle dittature più sadiche del Novecento che ha, prima, inventato e applicato metodi di tortura brutali e poi provveduto alla radicale eliminazione di chiunque fosse solo sospettato di essere un nemico del regime. I “voli della morte” restano il marchio di infamia di quell’assurdo delirio repressivo. Le “Abuelas de Plaza de Mayo” non si arrendono, reclamano i nipoti, vogliono conoscere il destino di tanti neonati separati con crudeltà dal grembo delle proprie madri, pretendono che il mondo non dimentichi. Horacio Verbitsky, per esempio, ha ricostruito capillarmente le tappe di quello scempio, ha raccolto la testimonianza di un aguzzino dell’ESMA, la scuola di formazione per gli ufficiali della marina trasformatasi nel centro di detenzione illegale durante gli anni tragici della dittatura, e ha spalancato gli occhi dei suoi connazionali, ha scovato gli insospettabili connivenze di cui ha goduto il regime, ha aperto uno squarcio nel muro d’omertà.

Ma i conti non sono ancora chiusi. Le cifre sono spaventose, però approssimative. Si cercano con abnegazione tracce dei condannati a morte e all’oblio, per la cinica paranoia e l’ottusa violenza di uomini politici e gerarchie militari assetate di sangue innocente e potere effimero, dissoltosi ingloriosamente con la disfatta bellica alle Isole Malvinas/Falkland.

L’Argentina è tutto questo e molto altro. Buenos Aires è la capitale del tango, è la casa di Diego Armando Maradona, il teatro del derby tra gli acerrimi rivali del Boca Juniors e del River Plate. E soprattutto è grande letteratura, da Borges a Cortázar, da Rodolfo Walsh a Roberto Arlt, che esprime un’originale visione della vita, una filosofia tutta sudamericana per non soccombere ai disastri. Gli argentini hanno imparato che non basta sfiorare la vittoria per vincere. Javier Mascherano, indomito centrocampista della Nazionale vice campione del mondo, non appena tornato in patria dopo la sconfitta del Maracana contro i tedeschi, ha detto che la squadra aveva giustamente perso la finale ma l’Argentina avrebbe meritato il successo. Forse, per le sapienti doti di condottiero dimostrate, lo hanno soprannominato “El jefecito” (il piccolo capo).  Senza vittimismi o recriminazioni di sorta, è questa l’immagine moderna di un popolo che vuole risollevarsi, sconfitto ma mai vinto, ferito ma sopravvissuto. Un popolo, che se perde, “rimanda le lacrime a domani”.

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