ELOGIO DELLA FUGA

Il cinema, la letteratura, la musica hanno raccontato, in tutte le varie sfaccettature, l’epica della fuga, restituendo dignità a un atto, almeno in apparenza, codardo, vile e ignobile. Spesso, infatti, sono ragioni e sentimenti nobili che possono indurre ad abbandonare, in fretta e furia, un luogo, eludendo la rigida sorveglianza posta a presidio, scavando un tunnel sotterraneo, sfidando le acque scure e agitate, con sprezzo del pericolo e delle inevitabili reazioni. In Fuga per la vittoria, per esempio, una partita di calcio diventa il pretesto per liberarsi dalla prigionia nazista. Clint Eastwood fugge dalla terribile prigione di Alcatraz non per sottrarsi alla carcerazione ma perché si ribella a una condanna che si stava trasformando in una forma surrettizia di tortura legalizzata.

E poi ci sono Thelma e Louise che scappano dalla provincia povera di idee o di opportunità e dalla burbera misoginia, figlia di un contesto primitivo e selvaggio, alla disperata ricerca di un’emancipazione estrema e definitiva. Il biologo francese, Henri Laborit, nel suo Elogio della fuga, esalta il distacco dalle convenzioni sociali e dai pregiudizi mentali come condizione necessaria per il raggiungimento della libertà individuale che si realizza attraverso l‘allontanamento e il rifiuto della realtà quotidiana. La fuga diventa una rincorsa verso il mondo dell’immaginazione, un mondo che non esiste in questo mondo, dove il rischio di essere inseguiti è il male minore, un effetto trascurabile.

«Le nostre valigie logore stavano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevano altro e più lungo cammino da percorrere. Ma non importa, la strada è vita», Jack Kerouac individuava l’eterno movimento, il moto perpetuo, il viaggio incessante come un presupposto imprescindibile, legato alla stessa natura umana. La vita o è on the road o perde la sua essenza e si tramuta in depressione, rinuncia, sconfitta. La fuga, dunque, è sempre connessa al viaggio, allo spostamento, al trasferimento, alla scelta di una rotta da percorrere con ostinata decisione verso un nuovo approdo, prima di ripartire nuovamente.

Melville ha consegnato alla letteratura un personaggio straordinario come il capitano Achab, ossessionato dalla cattura della balena bianca per la quale inizia un avventuroso tragitto a bordo di una nave attrezzata per la caccia ai cetacei, sfidando mare, onde e destino. In Furore di Steinbeck, il vagabondare diventa il tratto distintivo di chi, privo di radici e famiglia, lavoro e certezze, erra in cerca di un salario giornaliero, senza avere alcuna prospettiva per il giorno successivo se non quella di proseguire la peregrinazione imposta dalle ostili contingenze.

Springsteen, grande ammiratore di Steinbeck, ha costruito la prima parte della sua folgorante carriera sulla tematica dell’evasione. C’è chi è nato con tutti gli agi e privilegi e chi è nato per correre nel tentativo di acciuffare un sogno sfuggente o, più semplicemente, di sopravvivere alle avversità. Per gli Eagles la vera essenza dell’esistenza si può cogliere solo in un’ideale corsia di sorpasso. Il viaggio si delinea come un percorso psicologico e mistico nei testi dei Doors o si raffigura, nella famosissima Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, come il desiderio ultimo di raggiungere la perfezione spirituale.

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Se guardiamo all’attualità, invece, la fuga perde tutte queste connotazioni romantiche, si priva di quelle strutture intellettuali che sublimano il pensiero e, attraverso l’azione, rappresentano il momento catartico che eleva le coscienze e purifica l’anima. Oggi, ogni comportamento assume le sembianze della farsa. Lo sberleffo è dietro l’angolo. Tutto si configura come una recita ridondante, già vista e già sentita, dove in scena vanno i soliti guitti anziché dei veri attori.

C’è chi scappa dalle proprie responsabilità, chi dalle condanne, chi semplicemente dal proprio senso di inadeguatezza, chi dalla vergogna che lo insegue, chi scappa per nascondersi, chi fugge senza nascondersi o senza temere gli inseguitori, chi preferisce le scorciatoie anche a costo di precipitare nel ridicolo. Siamo più vicini alla recita di Eduardo De Filippo il quale, non curante del coprifuoco e delle bombe che lambiscono la sua casa, si finge morto in Napoli milionaria per sfuggire all’arresto, che alle gesta di gagliardi eroi romanzeschi o cinematografici.

In Italia, è tutto fermo anche quando tutto sembra muoversi. Ogni cosa rimane uguale anche quando pare che tutto sia cambiato. Si invertono le pedine, si scambiano le posizioni, si intervallano volti noti con qualche faccia nuova senza mutare la sostanza delle cose, ma solo mischiando le carte in tavola nel patetico tentativo di dare un’impressione diversa rispetto al passato, pur restando indissolubilmente legati alla potenza e prepotenza di chi ha impresso il proprio marchio su quello stesso passato recente.  Ai vertici delle grandi aziende di Stato, vengono ancora nominati personaggi legati a questa o quella corrente politica, o personalità che hanno sfruttato precedenti incarichi come trampolini di lancio. Si cumulano cariche, si sommano conflitti di interessi, si moltiplicano le incompatibilità senza che i controllori, liberi da controlli, esercitino la sorveglianza dovuta, essendo, peraltro, i medesimi responsabili di tante indecenze su cui avrebbero dovuto e dovrebbero vigilare. In tutto questo groviglio di conniventi interessi, il Paese si sta avvitando su se stesso. Non cresce e non matura. Insomma, non va da nessuna parte. Affonda, precipita, non arresta la discesa nemmeno di fronte al baratro. Chi dovrebbe restare, scappa. Chi dovrebbe scappare, resta. In questo contesto confuso e claustrofobico, si ha la netta impressione che l’unica difesa, l’ultimo baluardo, in difesa della dignità e della libertà di chi ha deciso di non capitolare o di non sottomettersi, resti proprio la fuga.

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