DUBITO ERGO SUM

«Quando voi incontrate una persona che ha dei dubbi, state tranquilli: vuol dire che è una brava persona, che è democratico, che è tollerante. Quando invece incontrate quelli che hanno le certezze, la fede incrollabile, allora dovete stare attenti». Diceva più o meno così il Prof. Bellavista, alias Luciano De Crescenzo, per spiegare, semplificandole, complicate teorie filosofiche ai suoi stravaganti discepoli. La simpatica condanna di ogni genere di totalitarismo, estremismo, fanatismo o assolutismo tout court, e la scelta metodologica del dubbio come strumento di riflessione rappresentano sempre un approdo sicuro contro ogni tipo di degenerazione intellettuale.  Per esempio, in tribunale, non si può sottovalutare il peso specifico del dubbio. Prima di emettere una condanna, bisogna dimostrare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che l’imputato sia colpevole, altrimenti, in mancanza di prove e riscontri, un’opinione pubblica matura, che sappia riconoscere la differenza tra principi democratici e sensazionalismo mediatico, deve accettare regole e assoluzioni. Da quello che invece si capta e si percepisce, la maggioranza delle persone possiede delle certezze granitiche, adora i riti sommari, preferisce la rapidità a scapito della qualità delle decisioni, la censura preventiva alla ricostruzione logica.

La tendenza a sbattere il mostro in prima pagina è un istinto primordiale irrefrenabile. Le dettagliate descrizioni dei delitti, ricostruite con perversione giornalistica, spaventano i cuori e ottenebrano le menti. Dal caso Cogne in poi, o forse già prima, è cambiato il modo di seguire i casi di cronaca. Gli spettatori non si accontentano più di seguire semplicemente la vicenda, ora devono interagire, condizionare, indurre la stampa a sostenere l’accusa, i giornalisti a diventare sostituti procuratori. Manco a dirlo, la tesi prevalente è sempre colpevolista. Senza se e senza ma. Le trasmissioni si sono trasformate in requisitorie senza contraddittorio, gli spettatori sono la giuria popolare improvvisata che sa solo emettere sentenze di colpevolezza sulla base di percezioni e pregiudizi, simpatie e antipatie, intuizioni che si rivelano clamorosi abbagli. Ci si accanisce con virulenza sui sospettati/indagati/imputati ancor prima del verdetto inappellabile. I primi a entrare in servizio sono sempre i consueti internauti da strapazzo che agitano il cappio, mettono alla gogna, ghigliottinano ogni brandello di garanzia processuale. La pena capitale è il minimo che possa meritare chi ha la sventura di subire un’indagine a suo carico. La legge del taglione è la soluzione da preferire in altre circostanze fino ad arrivare alla mutilazione quando il delitto è di quelli particolarmente vergognosi. Poi tocca agli strampalati “salottisti” della seconda serata allestire la messa in scena forcaiola con tanto di criminologi, psicologi, sociologi, avvocati, politici, soubrette.

Una compagnia di giro che assomiglia a quella straordinariamente rappresentata da Friedrich Dürrenmatt nel suo romanzo breve “La panne”, che ispirò pure il film di Ettore Scola “La più bella serata della mia vita” con Alberto Sordi, nel quale un gruppo di magistrati in pensione si diletta a celebrare per gioco alcuni tra i più famosi processi della storia. Il perfido simposio, organizzato ad arte tra invitanti prelibatezze e conversazioni pericolose, si trasforma in un micidiale trabocchetto per lo sventurato protagonista, Alfredo Traps, che, costretto a chiedere ospitalità in quella villa sinistra a causa di un guasto all’auto, finisce per essere stritolato nel diabolico passatempo congegnato da quella congrega di buontemponi. La cena si trasformerà in un processo beffardo, il brindisi in una condanna definitiva, lo scherzo crudele in un presagio funebre. «Noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi». Questo è quanto succede in televisione. Come gli allegri commensali di Dürrenmatt, ci si fa beffe delle procedure, del segreto istruttorio, del garantismo che non è un inutile orpello ma un fondamento della civiltà moderna. Come tanti caterpillar fuori controllo, queste chiacchiere scambiate con superficiale allegria distruggono i fondamenti del diritto, erodono inesorabilmente il tessuto sociale/civile, stroncano sul nascere ogni tentativo di innalzare il livello della discussione.

Eppure nel Paese di Enzo Tortora un minimo di prudenza sarebbe assolutamente consigliata. La casistica, più o meno recente, dimostra la necessità di procedere con estrema cautela prima di emettere un giudizio tranciante. In quest’ottica, l’esercizio del dubbio è il metodo più efficace per arrivare alla conoscenza. Le convinzioni non dimostrate, che difettano del necessario percorso cognitivo, al contrario, conducono all’ignoranza, all’incoscienza e all’irresponsabilità. La ricerca della verità richiede tutta una serie di passaggi logici che non possono essere né saltati né affrontati frettolosamente. È come un’indagine scientifica o un esame clinico, va sottoposta a verifiche costanti da valutare empiricamente, da analizzare al microscopio. Prima di ricominciare daccapo per escludere senza incertezze una ricostruzione contraria a quella a cui si è pervenuti. Solo quando l’ipotesi più verosimile diventa inattaccabile o non ammette una tesi opposta, seppure in via del tutto ipotetica, solamente allora si potrà giungere al superamento dello stato d’incertezza e al raggiungimento di un livello attendibile di conoscenza. L’operazione è delicata, quasi chirurgica, richiede pazienza e meticolosità. Altrimenti, fin quando persisterà “l’equivalenza degli opposti ragionamenti”, pur forzando la propria natura selvatica, i più dovranno rassegnarsi alla sospensione del giudizio che, nella prassi forense, significa assoluzione, proscioglimento, archiviazione. Chi è tanto inflessibile e ci tiene all’osservanza delle regole e della legalità, dovrebbe interrogarsi sulla contraddizione intrinseca che cela questo tipo di impostazione rigida e cinica: la consegna alle telecamere del sospettato di turno, in assenza di indizi gravi, precisi e concordanti, è la garanzia di impunità per il vero responsabile. Processare un altro al suo posto gli consentirà di farla franca. Avremo un colpevole ma non il colpevole, poche certezze e tanti dubbi. Una vittima, un innocente dentro e un colpevole a spasso.

(Pubblicato su Ottopagine del 28 settembre 2014)

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