UN GIORNO ALL’IMPROVVISO

L’ultima volta che il Napoli aveva conquistato il primo posto in classifica, Nicoletta Ammaturo non era stata ancora ammazzata, governava ancora il pentapartito e i Pearl Jam non avevano ancora pubblicato il loro primo album. Erano trascorsi venticinque anni da allora. Un quarto di secolo nel quale il mondo era diventato un posto ancor più pericoloso, con l’aggravante che la musica era peggiorata e di album decenti se ne pubblicavano pochissimi. In quel lasso di tempo aveva provato in tutti i modi ad emergere da una vita mediocre, ma gli eventi lo avevano sopraffatto; non era riuscito a mettersi quella storia alle spalle e continuava a vivere in un perenne stato di paura.

Camminava per strada guardandosi continuamente alle spalle. Era un riflesso automatico. Scrutava tra la folla le facce sospette, gli sguardi ostili o semplicemente le espressioni che lo facevano trasalire. Evitava le stradine isolate, non usciva mai di notte, viveva in un appartamento blindato. Prendeva tutte le precauzioni possibili. La prudenza non era mai abbastanza, anche se dal ritorno da Londra non aveva mai avuto il sentore di essere spiato, seguito o peggio ancora minacciato. S’era trovato un lavoretto part-time come commesso in un negozio d’abbigliamento al Vomero. Arrotondava con impieghi saltuari come correttore di bozze per piccole case editrici o dando lezioni private a studenti delle scuole medie. Guadagnava quanto gli bastava per sopravvivere. Per pagare l’affitto di un monolocale tra i Colli Aminei e Capodimonte e l’assicurazione dello scooter. Spese extra non se ne poteva permettere.

Il biglietto di curva B per Napoli-Inter fu il primo lusso che si concesse. E visto che quella sera non voleva farsi mancare proprio niente, andò alla partita con una donna: Simona, la mamma di un suo allievo. Col tempo era nata un’amicizia.

Niente di più: era il massimo che si potevano consentire in quelle circostanze. Lei aveva un divorzio doloroso alle spalle, Fabrizio le cicatrici di un’intera esistenza.

C’era un tacito accordo tra loro: nessun coinvolgimento, nemmeno fisico. Entrambi erano piuttosto abili a scansare domande sul passato. Il calcio era un buon compromesso per evitare discorsi insidiosi.

«Mai visto il Napoli giocare così bene», disse Fabrizio al termine del primo tempo. Una banalità utile ad abbozzare un dialogo e a scacciare la timidezza.

«Non è che ci capisco molto. A stento riconosco le squadre», Simona rispose con un certo sollievo. Detestava quelle situazioni in cui non si sa cosa dire e frasi di circostanza si fanno breccia nell’imbarazzo del silenzio prolungato.

«Vabbè, però, ti è chiaro che il Napoli è quello con la maglia azzurra e i pantaloncini bianchi…», Fabrizio si stava rilassando. «Sì, non sono completamente deficiente!». Si sorrisero. Da lì alla fine della partita non si sarebbero più rivolti la parola. Questa volta, c’entravano poco i caratteri introversi. Fabrizio era preso da quello che accadeva in campo. Come un copione già scritto, il finale della gara fu da crepacuore. Fabrizio, nel momento di massima sofferenza, affondò i polpastrelli nel braccio di Simona. Lei avvertì un leggero indolenzimento ma lo lasciò fare. 
Le circostanze resero Fabrizio ancor più audace. Si strinse a Simona, l’abbracciò. Per stemperare la tensione con il contatto. Per un solo lungo, interminabile minuto. L’ultimo della partita, durante il quale l’Inter colpì due pali. Gli dèi del Calcio, questa volta, avevano strizzato l’occhio alla squadra azzurra. Il Napoli era di nuovo in cima alla classifica di Serie A in un tripudio di voci e colori.

Fabrizio non riuscì a trattenere la commozione. Sfogò così la frustrazione. Le lacrime bagnarono il collo di Simona che si lasciò contagiare dall’entusiasmo anche se tutto le appariva ancora un po’ puerile, se non sciocco.

Fabrizio era in estasi. Ascoltò prima la curva, poi tutto lo stadio, intonare un coro spontaneo, ritmico, dalle armonie quasi sudamericane, che cresceva di intensità fino a coinvolgere anche i giocatori in campo.

“Un giorno all’improvviso, m’innamorai di te…”.

Tutti cantavano, nessuno voleva andare via dallo stadio. Se avessero potuto, avrebbero prolungato quell’istante in eterno. Non importava come sarebbe finito il campionato; quello che contava era l’attimo di sospensione. La pausa dalla sofferenza. Il momento in cui si riesce ad astrarsi dalla realtà quotidiana, dagli affanni, dal terrore. Come nel momento che precede il sonno. Nel dormiveglia, non si sente nulla, nessun dolore, nessuna inquietudine.

“…il cuore mi batteva, non chiedermi perché…”.

Anche Simona approfittò di quel momento magico. Forse diverse ne erano le cause ma si percepiva che anche lei aveva superato la soglia di sopportazione. Come spesso accade, la vita l’aveva sopraffatta.

“…di tempo n’è passato ma sono ancora qua…”.

Ora, però, si stavano lasciando andare. Come su una nuvola, lontani dall’orrore visto, annusato, mangiato fino a quel momento. Il senso di oppressione scomparve per qualche istante. Pure Fabrizio si sentì sollevato. Mentre tutti esultavano per le prodezze di Higuain, Fabrizio si guardava intorno e poi fissava il vuoto. La sua esistenza era prigioniera del panico. Aveva più paura di soffrire che di morire. Non trascorreva giorno che non immaginasse di essere torturato in una stanza umida e fetida. Gli avrebbero tagliato le mani, cavato gli occhi, tagliato la gola e poi lo avrebbero lasciato in pasto ai topi. Per quanti sforzi facesse, non riusciva proprio a scacciare quei pensieri. La pa-ranoia lo faceva sentire un idiota. L’ansia gli provoca delle fitte intestinali. Ma più di ogni cosa gli logorava la salute mentale.

“…e oggi come allora, difendo la città…”.

Il canto che si propagava oltre lo stadio, su per le colline di Posillipo fino a Nisida e proseguiva verso le isole e il mare aperto, sembrò restituirgli un po’ di serenità o almeno una sensazione che ne avesse le sembianze. Simona gli strinse forte la mano. Nello stordimento generale, avvertì un leggero aumento della pressione sanguigna che provò subito a reprimere. Non se lo poteva permettere. Prese Simona sotto braccio e si accodarono alla gente che stava abbandonando gli spalti.

Tra il suono incessante dei tamburi, il frastuono gioioso dei clacson, il vociare delle persone che abbandonavano festanti il San Paolo, s’avviarono verso il parcheggio.

 

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Estratto dal romanzo “Delitto di una notte di mezza estate” di Gianluca Spera – ad est dell’equatore

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