LA NOTTE DELLA VERGOGNA

Per quanto si cerchi di minimizzare, di alterare la realtà dei fatti, di confondere le persone, di nascondere episodi imbarazzanti, di schierare e allineare la stampa amica, quello che è accaduto sabato scorso dentro e fuori lo stadio Olimpico di Roma, in occasione della finale di Coppa Italia tra il Napoli e la Fiorentina, resterà una macchia indelebile per la reputazione dello Stato italiano, un raro esempio di impreparazione e disorganizzazione. Sgomberiamo subito il campo da equivoci, le considerazioni che seguiranno non vogliono rappresentare un alibi per tutta una serie di atteggiamenti criminali e per gli autori degli stessi comportamenti. Nessun tipo di indulgenza può meritare chi gira armato di pistola per le strade della Capitale, chi va allo stadio con i bastoni, chi sequestra un intero stadio minacciando di scatenare la guerriglia, chi lancia bombe carta dalla curva, chi tenta di sfondare i varchi d’accesso per guadagnare abusivamente un posto sugli spalti pur non essendo in possesso del biglietto oppure chi invade selvaggiamente il terreno di gioco al termine di una tormentata partita. Fatta questa banale ma doverosa premessa, onde evitare che si ingenerino fastidiosi equivoci, non ci si può esimere dal rimarcare le carenze del sistema organizzativo che doveva sovrintendere alla buona riuscita della manifestazione e si è, invece, rivelato un fallimento.

Sono state sottovalutate le informative, sono stati trascurati i segnali d’allarme, non si è tenuto conto delle tensioni esistenti tra la tifoseria romanista e quella napoletana, non si sono presidiati i punti nevralgici, non si è percepita immediatamente la gravità di quello che stava accadendo. Sono state create ulteriori situazioni di panico e pericolo quando si è deciso di disattivare i tornelli di accesso alla curva, intrappolando tra i cancelli e le barriere tutta la gente in fila, minuta di regolare biglietto, che stava aspettando di entrare allo stadio, proprio nel momento in cui sono partite un paio di cariche delle forze dell’ordine per respingere i violenti, con il rischio concreto che quella moltitudine di persone potesse essere schiacciata o calpestata dalla folla impazzita. Questa è una delle tante scene sfuggite agli occhi delle telecamere, una circostanza che è stata sottratta al racconto, non sempre fedele, dei fatti di Roma. L’attenzione generale si è focalizzata sulla figura romanzesca del capo tifoso, Genny detto ‘a carogna, ormai una celebrità, che, a cavalcioni sulla balaustra, dirigeva le operazioni all’interno dello stadio Olimpico tra lo stupore impotente delle massime cariche dello Stato presenti in tribuna. I loro volti assomigliavano a quelli degli alunni che sperano di non essere interrogati perché, il giorno prima, non hanno aperto il libro. I loro volti tradivano la stessa ansia di un allievo impreparato mentre l’insegnante scorre l’indice sul registro alla ricerca del suo nome. Il silenzio è più significativo di mille parole.

Qualcuno avrebbe addirittura voluto abbandonare lo stadio diventato, a quel punto, inospitale come una nave in tempesta nella quale, tra caos disorganizzato e approssimazione, si sono perse le tracce del capitano e i marinai cercano di mettersi in salvo. Solo gli obblighi istituzionali e un minimo di decenza gli hanno imposto la permanenza allo stadio. Sotto il loro sguardo, tanto attento quanto impotente, quello incredulo di chi era allo stadio o a casa davanti alla televisione, si è consumato quell’inconcepibile conciliabolo nei pressi della curva nord occupata dai tifosi napoletani. «Nessuna trattativa c’è stata, la partita si sarebbe svolta comunque anche per scongiurare rischi da deflusso», ha riferito in Parlamento il ministro dell’Interno Alfano. Che il Prefetto, di concerto col ministero, avesse deciso di autorizzare il calcio d’inizio pare innegabile. Però la versione del titolare del Viminale, peraltro ribadita dal Questore di Roma, non spiega i quarantacinque minuti di ritardo né la necessità che Marek Hamsik, accompagnato da due dirigenti del club azzurro, si recasse sotto la curva. Dovevano solamente riferire sulle condizioni di Ciro Esposito, colpito da un proiettile alla schiena prima della partita? Avevano deciso spontaneamente di recarsi nei pressi della gradinata per calmare i propri di tifosi?

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Dalle motivazioni del provvedimento del Giudice sportivo Tosel, cha ha pesantemente sanzionato la società partenopea, emerge una ricostruzione diversa. Gli ispettori della Figc, che hanno accompagnato la delegazione azzurra in quella rischiosa spedizione, tra l’esplosione di petardi e il lancio di fumogeni, nel loro rapporto, alla base delle decisioni della giustizia sportiva, hanno riportato una differente verità. Non si è trattato di un’iniziativa del club. Vi era una concreta minaccia di invasione di campo che ha spinto i responsabili della sicurezza a investire Hamsik del ruolo di mediatore, nel tentativo disperato di coprire l’inadeguatezza dietro la lunga cresta dello slovacco. Il colloquio tra il capitano del Napoli e il capo tifoso, registrato dagli 007 federali, smentisce clamorosamente il ministro. È evidente che qualcuno sta fornendo una versione di comodo. Ormai la questione è diventata tutta politica. Con le elezioni europee alle porte, ogni avvenimento presta il fianco alle speculazioni, alle manipolazioni e agli equivoci. È necessario esibire lo scalpo del capro espiatorio di turno, quello che dal ruolo di interlocutore privilegiato viene degradato a impresentabile criminale nel giro di un giorno, giusto il tempo di silenziare accuse e responsabilità collettive. Così facendo, il rischio concreto è che una tragedia si trasformi in farsa, una trattativa, disconosciuta con poca convinzione, in una ingloriosa resa dello Stato a un manipolo di facinorosi organizzati.

Peraltro, a tal proposito, andrebbe ricordato, non a parziale assoluzione del capo tifoso, che sulla quella stessa balaustra c’era già salita Renata Polverini, con diverse intenzioni, durante la campagna elettorale del 2010, nel corso una partita della Lazio, nel tentativo di ricucire con gli ultras biancocelesti, solitamente schierati su posizioni di estrema destra, e allargare il proprio bacino di preferenze. Né va dimenticato che la maglietta indossata dal capo tifoso, che riapre tristemente ferite insanabili, non può essere condannata da chi ritiene legittimo contestare i provvedimenti dell’autorità giudiziaria, anche le sentenze passate in giudicato. Forse andrebbe censurato il contesto in cui viene esibita o l’uso strumentale che se ne vuole ricavare. «Chiedere la libertà di una persona che viene condannata o sta per essere condannata non è qualcosa che dovrebbe suonare nuova nemmeno al Ministro dell’Interno Alfano. A volte si può anche manifestare per una persona che si crede essere innocente», ha sagacemente osservato Enrico Mentana. Altre volte sarebbe più opportuno rassegnare le proprie dimissioni irrevocabili.

(Pubblicato su Ottopagine nel maggio 2014)

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