IL RIGORE PIÙ TRAGICO DEL MONDO

Firenze, 30 giugno 1990. Verso le 7,30 di una serata particolarmente afosa, le mani protese di Sergio Goycochea, il classico eroe per caso, cambiarono il corso della storia e segnarono il destino di un Paese. Il portiere di riserva argentino, schierato per l’infortunio occorso al titolare, respinse l’ultimo rigore della serie calciato dal capitano jugoslavo, Faruk Hadžibegić.

Risultato: Argentina in semifinale contro l’Italia, Jugoslavia sull’orlo della guerra civile.

Il bellissimo libro di Gigi Riva (“L’ultimo rigore di Faruk – Una storia di calcio e guerra” – edito da Sellerio), una delle migliori uscite degli ultimi mesi, ci racconta come il calcio abbia avuto un ruolo fondamentale, se non decisivo, nella dissoluzione della ex Jugoslavia. Qui, siamo al di là della semplice metafora. Riva congegna un intreccio di episodi in cui sport e politica si mescolano irrimediabilmente, quasi facendo scomparire la linea di demarcazione tra l’uno e l’altro ambito.

Il destino infausto della Jugoslavia è stato scandito proprio da alcune vicende calcistiche. È sufficiente richiamare gli scontri tra gli acerrimi rivali della Stella Rossa di Belgrado e la Dinamo Zagabria, considerati come il prologo del conflitto balcanico, o addirittura la prima vera battaglia che, poi, ha condotto a tutti gli orrori, alle pulizie etniche, ai massacri, agli stupri, alla guerra e ai bombardamenti. All’ingresso dello stadio di Zagabria, c’è ancora una targa che celebra gli “eroi” croati di quella giornata (“Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia”).

Era il 13 maggio 1990: la partita non ebbe mai inizio. In campo, il calcio lasciò spazio alla violenza. Il croato Zvonimir Boban, che poi sarà una delle stelle del Milan degli anni d’oro berlusconiani, restò in campo a difendere i suoi tifosi dalle cariche della polizia. Sferrò un calcio a un agente. Qualche anno più tardi, dirà: “Posso solo aggiungere che ho reagito a una grande ingiustizia, non si poteva restare indifferenti. Ci furono sicuramente anche da parte mia delle provocazioni prima dello scontro col poliziotto”. Giusto per sottolineare che in quel clima incandescente e confuso, era piuttosto arduo distinguere le ragioni dai torti, i buoni dai cattivi, il giusto dal crimine. Fatto sta che a causa di quel misfatto, Boban fu costretto a saltare il mondiale per squalifica.

Il “Brasile d’Europa” avrebbe dovuto rinunciare a uno dei suoi assi proprio mentre l’esplosione degli odi etnici stava dilaniando il Paese e creando ulteriori tensioni nella squadra di calcio impegnata nella spedizione italiana, con l’allenatore Osim costretto a bilanciare in campo i calciatori delle diverse etnie. Lo sloveno Katanec, mediano e punto di riferimento della selezione, prima della sfida contro l’Argentina, chiese al tecnico di essere escluso dalla formazione a causa di pesanti minacce ricevute. Il clima era incandescente, la paura inghiottiva anche il desiderio di diventare campione. Il destino mostrò il suo volto più beffardo.

Neppure l’errore di Maradona, ipnotizzato per la seconda volta dal portiere Ivković (la circostanza si era già verificata durante la partita di Coppa Uefa Napoli-Sporting Lisbona), riuscì a indirizzare la contesta verso la squadra jugoslava. Il rigore fallito dal capitano Hadžibegić spense definitivamente i sogni di gloria. Forse, un esito diverso di quella partita avrebbe potuto rinsaldare le spinte nazionaliste e soffocare i focolai di rivolta in Jugoslavia.

Il libro di Riva gira intorno a quest’episodio da cui si dipanano tutta una serie di storie reali, di aneddoti, di racconti tragici, anche di coincidenze che, come una sorta di magnete, incollano il lettore alle pagine. Sempre nel 1990, per esempio, la Nazionale jugoslava di pallacanestro (se quella di calcio era una specie di Brasile balcanico, quella di basket era un vero e proprio Dream Team) vinse i campionati del mondo proprio in Argentina. Riva ricorda il litigio tra i due fuoriclasse della squadra, il serbo Divac e il croato Petrović, provocata dal gesto del primo che calpestò una bandiera croata durante i festeggiamenti sul parquet (“era la vittoria del Paese intero, non di una sua parte”). Petrovic, poi, morì in un incidente stradale nel 1993, Divac solo 17 anni dopo trovò la forza di abbracciare i genitori del suo amico prematuramente scomparso.

Riva, dunque, riesce a fornire la sua chiave di lettura degli eventi, a mostrare come l’enorme popolarità del calcio rappresenta una potente arma per strumentalizzare le vicende sportive per fini politici, come successe pure in Argentina nel 1978 quando la feroce dittatura utilizzò il mondiale vinto come strumento di propaganda per il regime.

Tra l’altro, le ferite della storia fanno fatica a rimarginarsi anche quando non si sente più il rumore degli spari. Sinisa Mihajlović, attuale allenatore del Torino, non ha mai nascosto la sua amicizia con Arkan, ultras della Stella Rossa e miliziano serbo, responsabile delle stragi in Croazia e Bosnia. Arkan fu ucciso nel 2000 e Mihajlović, pur condannando le atrocità commesse, gli dedicò un necrologio definendolo “un eroe per il popolo serbo”. Gli ultras della Lazio, squadra in cui militava il serbo all’epoca, esposero addirittura uno striscione dedicato ad Arkan.

Ecco il motivo per cui le parole, riportate in esergo, che Maradona rivolse all’autore del libro, perdono il tono macchiettistico e si mostrano, invece, come un’inattesa rivelazione, quasi un’illuminazione improvvisa: “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppa seria”.

A Riva, in definitiva, va riconosciuto l’enorme merito di esser stato capace di recuperare un pezzo di storia assai complicata e scivolosa, restituendolo in maniera superba senza scadere nella retorica, o peggio ancora nel pietismo, e di esser riuscito a conferire un tono epico alle imprese sportive che difficilmente si riesce a riscontrare nella letteratura contemporanea.

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