IL RAMBO DI FUORIGROTTA

Nando De Napoli era in campo il 3 luglio 1990. Indossava la maglia numero undici della Nazionale italiana. Diede avvio all’azione che portò al gol illusorio di Schillaci: appena prima che la madre di tutte le “notti magiche” si trasformasse in un incubo, almeno per i tifosi italiani.

Aprendo il libro dei ricordi, l’ex centrocampista azzurro restituisce le emozioni di quella serata e il contesto in cui si svolse la partita: lo stadio San Paolo, palcoscenico di gioie e dolori calcistici. Dal trionfo del 10 maggio 1987 al tonfo dell’anno seguente, De Napoli, detto “Rambo” per la grinta e l’impegno mostrato in ogni partita, ripercorre le tappe della sua esaltante e gloriosa carriera.

Ci puoi descrivere come lo stadio San Paolo di Napoli accolse la Nazionale italiana?

Noi tutti notammo subito un clima diverso da quello che, all’Olimpico, c’aveva accompagnato fino alla semifinale. A Roma lo stadio era sempre stracolmo di bandiere, i tifosi delle squadre avversarie occupavano un piccolo spicchio di gradinata. A Napoli, invece, in curva B c’erano pochi vessilli tricolori e diverse bandiere argentine. Probabilmente, le dichiarazioni di Maradona, alla vigilia della partita, avevano contribuito a creare un ambiente più favorevole ai nostri avversari.

 

Vi ha condizionati in campo questa sensazione di essere un po’ estranei a casa vostra?

No, non no a questo punto. Però, nel corso dei centoventi minuti, avvertimmo quella strana sensazione. L’Olimpico era casa nostra, al San Paolo ci sembrò quasi di giocare in campo neutro. Onestamente, va anche riconosciuto che non fu il contorno a determinare il risultato. Se non arrivammo in finale, la responsabilità fu unicamente nostra. Eravamo una squadra molto forte, con grandi campioni in ogni reparto. C’era la consapevolezza, quasi la convinzione, di poter sollevare la coppa del mondo. Probabilmente eravamo fin troppo sicuri delle nostre potenzialità. A distanza di anni, devo riconoscere che quella re- sta la più grande delusione della mia carriera. Più cocente anche dello scudetto perso quel maledetto primo maggio del 1988.

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Parliamo un po’ di Napoli, città unica nel suo genere ma ricca di contraddizioni. Pigra come sono le città che s’affacciano sul Mediterraneo, aristocratica e accogliente allo stesso tempo. Per te che eri abituato alla vita di provincia, cos’ha rappresentato il grande salto in una metropoli per certi aspetti chiassosa e disordinata?

All’inizio era un po’ timoroso. Da giovane avevo un carattere introverso ed ero piuttosto ansioso. Il mio paese (Chiusano San Domenico, in provincia di Avellino) dista poco più di quaranta chilometri da Napoli, eppure esisteva una differenza abissale tra la tranquilla routine di provincia e i ritmi frenetici della grande città. A parte questo, non mi sono mai pentito della scelta. All’epoca avevo ricevuto offerte dalla Juventus, dal Milan, dall’Inter, dalla Sampdoria ma non ebbi la minima esitazione nello scegliere il Napoli. Io che ero abituato a giocare al Partenio, rimasi impressionato dall’impatto emotivo che ci regalava il San Paolo: uno stadio enorme che traboccava di entusiasmo da ogni settore. Mi sento privilegiato ad aver fatto parte di quella squadra e resterà motivo d’orgoglio l’aver contribuito a regalare diverse gioie al popolo partenopeo.

A cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, Napoli era in pieno fermento artistico. Massimo Troisi, Pino Daniele, Edoardo Bennato – solo per citarne alcuni – rappresentavano dei punti di riferimento culturali per tutto il Paese. Come si viveva quel periodo d’oro dalla vostra prospettiva?

Noi sentivamo il peso di una città che ci trascinava verso grandi traguardi. Eravamo consapevoli che quello era il momento propizio per ottenere risultati importanti. La vivacità culturale era un ulteriore stimolo. Troisi, Pino Daniele, ma anche Tony Esposito, c’erano molto vicini pur non essendo dei grandi esperti di calcio. La loro vicinanza ci dava una spinta supplementare. È un vero peccato che due grandi artisti come Massimo e Pino, con cui avevo un ottimo rapporto, ci abbiano lasciato così prematuramente. Avevano ancora tanto da dire e da raccontare.

 

Sei più legato al primo o al secondo scudetto?

Senza dubbio al primo. È stato più difficile conquistarlo. Il Napoli non lo aveva mai vinto. Durante il campionato avevamo intuito che i tempi fossero maturi per diventare finalmente campioni ma solo quando abbiamo avuto la certezza matematica abbiamo allentato la tensione. Fu un cammino straordinario coronato nella partita contro la Fiorentina. In campo non si sentivano le voci dei compagni, né i fischi dell’arbitro. Eravamo sommersi dal frastuono, mi risulta difficile ricordare un’esplosione di gioia come quella. Il secondo scudetto fu una naturale conseguenza di tutto il lavoro di quegli anni. Anche se alcuni ancora parlano banalmente della monetina che colpì Alemao a Bergamo, quella vittoria fu meritata.

Maradona è stato sicuramente l’artefice di tutti quei successi. Come si rapportava con la squadra? Faceva sentire il peso della sua classe o si mostrava comunque disponibile verso tutti i compagni?

Una cosa va detta subito: Maradona era ed è una persona fondamentalmente buona. Sono contento di essere rimasto in contatto con lui e di sentirlo spesso. Diego era il nostro capitano, era colui che si caricava addosso il peso delle responsabilità difendendo sempre la squadra nei momenti di difficoltà. A volte, è stato il parafulmine di tante situazioni ma ha agito sempre nell’interesse generale. A Maradona le questioni piaceva affrontarle di petto. Le risolveva immediatamente e senza giri di parole. Il metodo è stato di sicuro efficace.

 

Dal libro dei ricordi pesca due partite: una positiva e l’altra negativa.

In testa ai ricordi personali non può che esserci il giorno dello scudetto. La partita contro la Fiorentina, giocata in un tripudio di bandiere e di voci assordanti, resta il momento più alto della mia carriera a Napoli. Un’altra serata da incorniciare è quella di Stoccarda. Anche se commisi un errore, a con- ti fatti ininfluente, che, ancora oggi quando ritorno in città, qualcuno è pronto a rinfacciarmelo simpaticamente. Questo la dice lunga pure sul fatto che il pubblico azzurro sia particolarmente esigente. Il momento più negativo è sicuramente la sconfitta col Milan, che ci costò lo scudetto. Noi ci eravamo un po’ rilassati, ci sentivamo già campioni. Il calo fisico fu fatale. Loro andavano a un’altra velocità e ci superarono. Si è anche ricamato molto su quella disfatta. Personalmente, non ho avuto il sentore che sia successo qualcosa di insolito. Abbiamo perso sul campo. Nella maggior parte dei casi è così: si vince e si perde sul campo. Per fortuna, due anni dopo, ci siamo presi la nostra rivincita sui rossoneri.

Il rimpianto nasce anche dalle due partecipazioni alla Coppa dei Campioni concluse troppo presto…

Nel primo caso, fummo molto sfortunati sia nel sorteggio che in campo. Il Real Madrid era fortissimo, schierava dei campioni di livello assoluto. Nonostante tutto, giocammo all’attacco entrambe le sfide ma non riuscimmo a concretizzare le tante occasioni create. Nella seconda partecipazione, lo Spartak Mosca era sicuramente alla nostra portata. Dopo il pareggio a Napoli, non eravamo nelle migliori condizioni per giocarci il ritorno. Diego arrivò all’ultimo momento e, alla fine, i rigori ci condannarono.

(Estratto da “Terzo tempo con Nando De Napoli” – L’intervista completa all’interno del romanzo “Delitto di una notte di mezza estate”)

http://www.adestdellequatore.com/2016/06/delitto-di-una-notte-di-mezza-estate-gianluca-spera/

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