L’ULTIMO VIAGGIO DI LEONARD COHEN

Sembra quasi uno scherzo del destino: scomparire subito dopo aver pubblicato il proprio testamento artistico, il disco definitivo. Era successo già a gennaio quando David Bowie, poco dopo la pubblicazione del suo intenso Blackstar, era poi venuto a mancare. La storia si ripete con Leonard Cohen. Il cantautore di origine canadese aveva appena presentato il suo ultimo lavoro You want it darker: un album intimo, più sussurrato che cantato, poca melodia e molta poesia, quasi una preghiera laica e struggente prima di consegnarsi a un destino ineluttabile. D’altronde, la religiosità è stata sempre un elemento controverso della poetica (usare il termine “musica” sarebbe riduttivo) coheniana che non si poteva dissociare dall’analisi politica.

Cohen, come tutti gli artisti di una certa caratura, è stato sostanzialmente un visionario, nel senso che ha anticipato gli eventi sulla base di una percezione, di una sensibilità spiccata che appartiene solo ai predestinati. Oggi, anche alla luce della recente elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, sembrano risuonare nelle orecchie canzoni come Democracy (1992) o First we take Manhattan (1988). Tredici anni prima che crollassero le Torri gemelli sotto gli attacchi jihadisti, Cohen già aveva percepito il rischio di un terrorismo su scala globale, figlio del fanatismo e dell’estremismo, forse colpevolmente sottovalutato dal mondo occidentale che sottovalutava la minaccia immaginandola come qualcosa di vago, indefinito, astratto.

Invece, la Manhattan di Cohen venne ferita a morte, massacrata, stuprata. Il World Trade Center non dista molto dal Chelsea Hotel, albergo leggendario reso celebre da grandi scrittori, cantanti, artisti, e messo in musica e versi da Cohen. La sua storia turbolenta con Janis Joplin raccontata in maniera esplicita, senza filtri. “Se ci fosse un modo per chiedere perdono a un fantasma, vorrei chiedere perdono per aver commesso quest’indiscrezione”, dichiarò dopo un po’ di tempo. L’allusione alla cantante poi scomparsa gli sembrò quasi un’illazione, una mancanza di rispetto visto anche il riferimento al sesso orale. Non era da Cohen la caduta di stile e mostrò un sincero pentimento.

Tante le donne che lo hanno circondato, tante quelle che si ritrovano nelle sue canzoni. A cominciare da quella conosciuta su un’isola greca negli anni sessanta che gli aveva fornito ispirazione per So long, Marianne e Bird on the wire. “Adesso, voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore infinito. Ci vediamo lungo la strada”, le ha scritto ad agosto come epitaffio, un arrivederci più che un addio. D’altronde, Cohen, l’ebreo errante come è stato definito da qualcuno, ha sempre ritenuto la vita come un viaggio che probabilmente prosegue anche dopo la morte, almeno in senso ideale, artistico, intellettuale.
Con la sua musica, ma anche con le poesie e i libri che hanno influenzato sia altri cantanti, pure di diverso genere o stile, ma anche la cinematografia, ha sempre inteso esorcizzare le paure, relegare l’odio in una dimensione disumana, degradante. “Il mio tempo sta per finire eppure non ho ancora cantato la vera canzone, la grande canzone”, aveva dichiarato con lucidità di recente.

In fondo a lui non spaventava l’idea della morte, ma solo i preliminari.

Unknown

(Pubblicato su Il Domenicale News del 12 novembre 2016)

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