L’ULTIMA NOTTE DELL’ANNO

Allo scoccare della mezzanotte brindarono nell’auto civetta. Dovevano dare l’impressione di star lì a fare baldoria. In cielo brillavano stelle luccicanti e fuochi d’artificio che illuminavano a giorno tutto il Golfo. In lontananza si distinguevano nitide Capri e la penisola sorrentina. Dalla rotonda Diaz e da piazza Plebiscito giungevano note stonate e voci sguaiate, che mescolandosi al fragore dei botti creavano uno stridente contrasto tra l’armonia delle luci e il rumoroso sottofondo musicale.

Napoli era come sempre sfavillante, ed esplodeva a intermittenza in un fantasmagorico caleidoscopio di colori. La scena era degna di una tela di Van Gogh, anche se i suoni non erano paragonabili a una sinfonia di Beethoven. In quella macchina maleodorante però, tra il tanfo di dopobarba dozzinale e quello di ascelle sudate, di poetico c’era ben poco.

Quell’operazione era tutt’altro che artistica. L’ispettore Stadera stava maledicendo i criminali che lo costringevano a lavorare pure la notte di Capodanno: «Quelle chiaviche non si sono ancora fatte vedere!» sbottò.

L’ispettore viveva con impazienza e irritazione tutta quell’attesa, e guardava nervosamente l’orologio tentando di mantenere un atteggiamento quanto più distaccato possibile dalla vicenda. I criminali avevano prudentemente nascosto l’imbarcazione dietro una nave da crociera. Poco lontano, alla loro sinistra, nei pressi del molo Beve- rello alcuni russi ubriachi stavano infastidendo delle prostitute di colore. L’agente scelto Improta fu distratto dalla scena e versò lo spumante sui pantaloni dell’ispettore.

 

«Tonino, sei sempre il solito coglione!» De Maria, l’altro agente scelto, scoppiò a ridere, suscitando la severa disapprovazione di Stadera, che lo redarguì con uno sguardo ful- minante.

Mentre Improta tentava di riparare goffamente al danno con un fazzoletto sudicio, ci fu un movimento sospetto nei pressi di un container. Delle ombre in movimento.

«Le merde stanno entrando in azione» sentenziò Stadera.

La soffiata era precisa. Due uomini scesero da un furgone, altri due erano pronti a ricevere la merce a bordo della barca. Stadera stava studiando i movimenti dei malviventi, ne stava soppesando i gesti. Un paio di minuti e sarebbero entrati in azione. Fece per restituire il piccolo binocolo a Improta, quando sentì una violenta esplosione alle loro spalle, e subito una violenta scarica di proiettili.

«Tutti fuori!» urlò l’ispettore.

Fu una questione di attimi. Fuoriuscirono dall’auto poco prima che prendesse fuoco. Cercarono riparo dietro un TIR. Seguì un’ulteriore raffica di spari, che mancarono per un soffio i bersagli ma rimbalzarono contro un container metallico, producendo un rumore sordo e fastidioso.

Le schegge colpirono Improta, che iniziò ad arrancare. Le gambe cominciarono a cedere. Si staccò dai suoi colleghi. Era ferito alle gambe e al braccio sinistro. Si accovacciò a terra. Si scoprì. I russi lo inquadrarono alla perfezione, il mirino era puntato su di lui. Tutto troppo facile. In un istante ripercorse per intero le tappe della sua vita: successi (pochi) e fallimenti (tanti), occasioni e rimpianti, luci e ombre. Fino al buio.

Lo crivellarono di colpi, il suo corpo esanime restò sull’asfalto. Buon anno, Improta!

Fu proprio in quel momento che i russi ebbero un momento di esitazione. De Maria, accecato dall’odio, sparò all’impazzata e riuscì a eliminarne uno. Ne restavano altri due.

Stadera trovò rifugio nel rimorchio del camion, De Maria gli era accanto. Ricaricarono le armi. De Maria soffocò il conato di vomito che stava risalendo dallo stomaco. I russi si erano spaventati. Uno era leggermente ferito. Si scoprì anche lui. Stadera lo centrò in mezzo al torace.

 

L’ultimo russo superstite, forse ubriaco o intimorito, scappò in direzione di via Marina, dove il rischio maggiore era beccarsi un proiettile vagante sparato in segno di giubilo da un balcone. Intanto Stadera si assicurò che De Maria non fosse ferito. Per fortuna aveva solo qualche graffio e altrettante ammaccature.

Il furgone si stava allontanando. Il carico era stato completato. L’imbarcazione non aveva ancora tolto gli ormeggi. Nel cielo di Napoli continuavano a esplodere i fuochi d’artificio. La gente era felice e inconsapevole. Sfogava così quella gioia evanescente, tra illusioni e prosecchi, coriandoli e profumi dozzinali. Un anno di merda era appena finito, un altro stava per cominciare.

«Muoviamoci!» Stadera partì come un razzo, la pistola d’ordinanza davanti. De Maria lo seguì con un misto di coraggio e incoscienza. L’imbarcazione era pronta a lasciare il molo. I malviventi si sentivano ormai al sicuro. Avevano osservato con la coda dell’occhio la manovra di disturbo dei russi. Non erano riusciti a eliminare del tutto la minaccia, ma avevano rallentato le manovre di Stadera. Uno degli arabi stava per raccogliere l’ancora, l’altro era già in cabina di comando.

«Alza le mani!» gli urlò Stadera. L’arabo non comprese l’ordine e non obbedì. Stadera non gli diede il tempo di prendere l’arma che aveva in tasca: il proiettile gli sfiorò il cuore e lo colpì all’altezza del gomito sinistro. Il delinquente si accasciò. Tremava, vomitava, si era pisciato addosso. Provò a sollevarsi. La seconda volta Stadera non aggiustò la mira. Lo mancò del tutto. Fu De Maria a esplodere il colpo che risultò fatale. Quell’altro arabo era ormai in trappola. Capì l’antifona e preferì gettarsi in acqua, in mezzo alla melma del porto. Fu divorato dalla corrente e dalla merda. Stadera e De Maria lo osservarono, con un misto di sollievo e disgusto, mentre un vortice d’acqua gelata e puzzolente lo risucchiava inesorabilmente.

 

Ascoltarono con soddisfazione e ribrezzo quelle grida oscene, proferite in una lingua sconosciuta e incomprensibile. Erano feriti, ma avevano reagito con coraggio e astuzia. Li avevano sgominati, sopraffatti con destrezza e un pizzico di incoscienza, ed erano convinti di aver vendicato Improta. Si apprestavano a salire sulla barca per sequestrare la merce. Solo in un secondo momento avrebbero avvisato il Comando. Si diedero un’occhiata intorno per essere sicuri che non ci fossero altri complici, più o meno camuffati.

De Maria, ancora scosso per la morte del collega, e allo stesso tempo sollevato per aver salvato la pelle, procedeva con passo spedito. Aveva fretta di tornare a casa da sua moglie. Distanziò Stadera di un paio di metri. Poi, avendo percepito che l’ispettore avanzava lentamente, si girò prontamente verso di lui. Notò uno strano sguardo: il viso si era rabbuiato come il cielo, dal quale stava iniziando a cadere una pioggia gelida e insistente. Fece qualche passo indietro. Gli si avvicinò per accertarsi che non fosse stato colpito da qualche proiettile. Lo fissò per un attimo. Notò un’increspatura tra le labbra, la pelle tirata, la mascella rigida, gli occhi lividi, le braccia protese. All’improvviso lo vide prorompere in un sorriso sardonico. Non riuscì a decifrare il comportamento dell’ispettore. Lo guardava con un misto di sorpresa e preoccupazione.

Si immobilizzò al centro della banchina, provò a dire qualcosa di sensato, ripensò a tutti i libri che aveva letto, alla musica che aveva ascoltato, ai film che aveva visto, alle persone che aveva amato, a tutte le volte che il Napoli lo aveva deluso, a quelle in cui lui aveva deluso qualcuno per seguire il Napoli. Riflettè sul fatto che non c’è quasi mai la possibilità di chiarire: i conti restano sempre sospesi, e le cose pigliano una piega inaspettata quando meno te l’aspetti. Stava pensando a tutte le volte che aveva visto piangere sua moglie per colpa sua. Poco prima che il proiettile sparato da Stadera lo centrasse in pieno volto.

ec3ed750-ca7d-4d80-b0aa-56496be6c5ac 2

 

(Tratto dal racconto “L’ultima notte dell’anno”, pubblicato all’interno della raccolta “Pausa dal dolore”).

Lascia un commento

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Su ↑