IO SONO LEGGENDA

Era il 2 luglio del 2001. Sedici anni fa. Sul campo centrale di Wimbledon, il sette volte campione, Pete Sampras, sfidava il giovane svizzero Roger Federer: una leggenda vivente contro un talento purissimo ma ancora acerbo, penalizzato da un’eccessiva emotività. Ebbene, quel giorno, Federer comprese ciò che avrebbe potuto realizzare nella sua carriera. Dopo cinque set tiratissimi, riuscì a battere il Mito, a interrompere una serie formidabile di vittorie dell’americano sui prati inglesi, a prenderne il posto nell’Olimpo del tennis.

Il cambio della guardia, tuttavia, fu solamente virtuale. Federer, dopo la straordinaria impresa in ottavi di finale, fu estromesso dal torneo nel turno successivo dall’idolo inglese, Tim Henman. Il giorno del trionfo fu addirittura rimandato di due anni perché nel 2002 Federer si lasciò sorprendere addirittura al primo turno dal croato Ancic, dando fiato allo scetticismo dei suoi detrattori.

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L’anno della consacrazione fu il 2003. Roger giocò finalmente da Federer, smarrendo in tutto il torneo solo un set: un cammino quasi immacolato suggellato dal trionfo in finale contro il colosso australiano Mark Philippoussis. Da allora, di Wimbledon ne conquistò cinque di fila, come Borg, fino alla traumatica sconfitta del 2008 contro il suo rivale più temibile, Rafa Nadal. Poi, il sesto nel 2009 e il settimo nel 2012. In questi anni, non sono mancate anche delle cocenti sconfitte che hanno lasciato qualche dubbio sull’integrità del campione e sulla capacità di essere all’altezza della sua fama nell’ultima parte della carriera.

Oggi Federer, invece, ha aggiunto l’ottavo sigillo alla sua collezione di successi sui prati di Church Road, a trentasei anni e a quattordici anni dal suo primo successo, senza lasciare neppure un set ai suoi avversari nelle due settimane londinesi. Il record di Sampras che sembrava ineguagliabile è stato polverizzato, annientato.

Federer possiede qualcosa di prodigioso, va oltre la ricerca proustiana, è capace di ricrearlo il tempo, di rigenerarlo e di rigenerarsi. Gli anni non ne scalfiscono l’agilità, l’intuito, la potenza, la resistenza e neppure il senso estetico che più delle vittorie resta il suo inconfondibile marchio di fabbrica.

Federer, negli anni in cui ha incantato il pubblico mondiale, ha annichilito tutti i suoi avversari, da Sampras fino a Cilic, passando per Agassi e Djokovic, Nadal (che comunque resta la sua nemesi) e Nalbandian, Murray e Roddick, ma soprattutto ha salvato il tennis moderno dalla noia, sovvertendone la struttura e rivoluzionandone lo sviluppo.

Il gioco potente e muscolare favorito dalle racchette spaziali risulta noioso, ripetitivo, stucchevole. Solo Federer riesce a restituire creatività, imprevedibilità, varietà di colpi e  genialità al gioco moderno per lo più monotono, basato su lunghi scambi da fondo, furibonde corse laterali e bolidi scagliati da ovali sempre più larghi e tecnologici.

Federer è l’unico capace di modificare velocità e rotazione alla palla, l’unico in grado di conquistare il campo colpo dopo colpo, di chiudere con un potente dritto da fondo o con una morbida volée di rovescio alla Edberg, il solo che nei suoi gesti fa rivivere Laver e McEnroe, Becker e Lendl. L’unico tennista moderno che potrebbe impugnare una vecchia racchetta di legno e non smarrire la consueta precisione.

Federer incarna il tennis come Maradona il calcio o Jordan il basket.

Wallace ha scomodato la metafisica per descrivere le gesta del fuoriclasse. E sicuramente non si è sbagliato: Federer, come Maradona o Jordan, esprime in campo un senso di onnipotenza che lo porta a surclassare i suoi avversari, a sorvolare le partite e ad avere come unico termine di confronto la Storia.

Il dominio, come in questo Wimbledon 2017, è imbarazzante, assoluto, incontrastato.

Ecco perché non esce di scena nel momento dell’apoteosi. Sa alla perfezione che può ancora vincere. Il declino è lontano, il tempo è ancora dalla sua parte, i trionfi e i record sono ancora lì ad attenderlo. Come a inizio carriera.

Per il nono Wimbledon, d’altronde, deve soltanto attendere dodici mesi.

ff

 

 

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