LA GRANDE DEPRESSIONE

«Dove ci sia nell’aria la voglia di lottare / contro il sangue e l’odio / cercami, mamma, io sarò lì / ovunque trovi qualcuno che combatte per un posto dove vivere / o un lavoro dignitoso, un aiuto, ovunque trovi qualcuno che lotta per essere libero, / guarda nei loro occhi, mamma, vedrai me», i versi di “The ghost of Tom Joad”, la canzone di Springsteen che ha tratto ispirazione dal lungo e doloroso peregrinare della famiglia Joad, già raccontato dalla prosa geniale di John Steinbeck in “Furore”, si adattano perfettamente alle angosce, alle tribolazioni, agli affanni che un’ampia fetta di giovani italiani sta vivendo sulla propria pelle in questi anni di beffarda attesa.

Scappano per necessità e non per un semplice capriccio. Se ne vanno con un groppo in gola perché il Paese in cui sono nati, cresciuti, quello stesso in cui hanno studiato e si sono formati li rigetta, li respinge, li mette alla porta. Non c’è spazio per il talento e la creatività. Anzi, sono doti che vengono guardate con una certa diffidenza perché minacciano la normalizzazione sociale e l’omologazione culturale che deve garantire la conservazione degli equilibri esistenti, fin troppo consolidati per permettere qualunque tipo di modifica.

L’estro non è ammesso, rappresenta un pericolo che deve essere scongiurato in quanto ribalta i vecchi schemi, crea una selezione basata sul merito, impone un ricambio che non può essere assolutamente consentito. In Italia, gli ingegneri, i medici, gli scienziati, gli economisti, i giuristi, insomma tutti coloro che sono esperti di una certa materia, quelli contesi dalle aziende straniere che gli assicurano contratti equi, stipendi adeguati e tanta dignità professionale, sarebbero destinati a un futuro traballante, a lavori degradanti, a un compenso ridicolo.

La paura di essere risucchiati in un vortice di mediocrità, paradossalmente, gli ha dato coraggio. «C’erano i fantasmi negli occhi di tutti i ragazzi / che avete lasciato scappare», gridava Springsteen nella struggente “Thunder Road”. Un altro fantasma, quello di Tom Joad, aleggiava sulla mitica Route 66, con tutto il peso della tragedia incombente. All’epoca del “New Deal” di Roosevelt, durante la grande crisi economica degli anni ’30, il trasferimento dalle depresse fattorie dell’Oklahoma alla “terra promessa”, la California, brulicante di prospettive effimere e mistificanti, comunque non alla portata di tutti, era una scelta obbligata, imposta dalla fame, dall’esigenza di sopravvivere. «E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore», è la frase del romanzo che meglio descrive la rabbia che si trasforma in energia positiva, in voglia di reagire, di non piegarsi ad un destino ineluttabile, già scritto da altri con inchiostro indelebile. I giovani italiani, specialmente quelli meridionali, con gli occhi lucidi e un peso sullo stomaco, hanno abbandonato la loro Oklahoma per ribellarsi all’ingiustizia di un Paese che li ha costretti a cercare oltre i propri confini quello che non vuole concedere sul suo territorio, depredato dalla barbara tirannia di vecchi e nuovi conquistatori.

«Non ti fa paura, andare in un posto che non conosci?». Al tormentato interrogativo del figlio, la mamma, il personaggio positivo del romanzo di “Furore”, rispondeva diffondendo un ottimismo suggerito delle circostanze più che dalla convinzione di riuscire nell’impresa: «Paura? Un poco. Ma poco. Non voglio pensare, preferisco aspettare. Quel che ci sarà da fare lo farò…». Chi è partito avrà più o meno ragionato allo stesso modo. Ha fatto quello c’era da fare. Senza poter scegliere o riflettere sulla decisione. Non ha avuto né il tempo, né la serenità dalla sua parte, benefici ad appannaggio di pochi eletti. Proprio il tempo, incredibilmente, non è dalla parte dei giovani italiani. Passa troppo in fretta e si ha sempre la sensazione di averlo sprecato, rincorrendo inganni e ricavandone cocenti delusioni.

Chi invita i ragazzi a guardarsi intorno, a non perdere le opportunità che vengono, generosamente, offerte altrove, in terre straniere più ospitali rispetto all’irriconoscente madrepatria, dimostra un’audace lungimiranza, una lucida consapevolezza, un’incontestabile oculatezza. Per quale motivo si dovrebbe investire, credere, impegnarsi per un Paese che ha deciso scientemente di bruciare gioventù e talento? Per qualche strana e inspiegabile ragione sarebbe opportuno aspettare il proprio turno in una triste ed affollata sala d’attesa, fredda e buia, che assomiglia a un limbo che mette a dura prova nervi e pazienza?

Chi parte, chi ce la fa, chi ha i mezzi per sottrarsi a quest’abbraccio letale rifiuta di restare sospeso, decide di costruire il proprio avvenire voltando le spalle alle false lusinghe e di lasciarsi dietro quell’abisso in cui sono precipitate tutte le illusioni che soffocano le legittime ambizioni. Sarebbe inutile e improduttivo logorarsi nella vana speranza di un cambiamento di rotta o farsi abbindolare dall’astuto cinismo che, senza freni, imperversa un po’ dappertutto.

«È un posto pieno di perdenti. E io me ne sto andando per vincere». Prima che sia troppo tardi.

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