L’ORSO CONTRO IL GENIO

La buona letteratura è emozionante come una finale di Wimbledon, è elegante come una volèe di McEnroe, è incisiva come un passante di Borg. I gesti hanno una loro importanza come le parole. “La grammatica del bianco” di Angelo Carotenuto (“Rizzoli editore”) resta indubbiamente uno dei migliori romanzi pubblicato negli ultimi tempi. In un periodo in cui la scrittura e le storie, salvo rare eccezioni, si sono omologate, il romanzo di Carotenuto apre una breccia, è una piccola perla in un mare di banalità che è diventata la maggior parte della letteratura moderna, specialmente nazionale.

Non era semplice raccontare due storie parallele che finiscono inevitabilmente per intrecciarsi: la finale di Wimbledon del 1980 e la dolorosa maturazione di un adolescente. Il tennis è la metafora della vita, la stella cometa nel percorso di affrancazione del giovane Warren, raccattapalle per caso, costretto a fare i conti con i nodi irrisolti della sua breve esistenza. «Il campo da tennis è l’unico posto al mondo dove si può parlare da soli senza essere presi per pazzi». Il libro procede come un monologo delicato in cui si fondono i prodigiosi colpi dei campioni e i sussurrati pensieri del protagonista. Quello sport, di cui ignorava regole e strategie, movimenti e punteggio, lo aiuta a decifrare e metabolizzare tutte le proprie inadeguatezze, a guardarle in faccia, a non avere più paura di affrontarle. Solo così può cominciare a vivere. Soltanto chiudendo, definitivamente, i conti col passato si può andare incontro al futuro.

Il romanzo è anche un grande tributo al tennis, a un’epoca leggendaria, quella a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, nella quale in campo contavano soprattutto talento e astuzia, la conquista del campo e la sensibilità del polso. L’Orso svedese, freddo e biondo, con il look di una rock star, contro il Genio americano, ribelle e scorbutico, che assomiglia a un personaggio uscito dalla penna di Kerouac.

La bravura di Carotenuto, che già si era messo in evidenza con il precedente lavoro (“Dove le strade non hanno nome” – Ad est dell’equatore) sta nell’aver creato una certa tensione emotiva descrivendo una partita di cui già si sa il punteggio. La scrittura calibrata riesce a tenere il lettore sulla corda inchiodandolo a ogni servizio o risposta, a ogni volèe o passante, a catturare anche le smorfie di Borg e McEnroe, fino all’improvviso epilogo, inatteso e lacerante. D’altronde, il tennis è uno sport crudele nel quale i punti non hanno tutti lo stesso valore, mandare la palla in rete è un errore e non esiste il pareggio. Per dirla alla Andy Warhol: «È meglio vedere un film che un incontro di tennis, non sopporto di vedere qualcuno che potrebbe perdere».

Lascia un commento

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Su ↑