L’AMERICA DECADENTE CON VISTA DA SEATTLE

Nell’immaginario collettivo, viene automatico associare Seattle al grunge, cioè a un genere musicale rock che più che identificare uno stile ha accomunato una serie di gruppi, dai Nirvana fino ai Foo Fighters, passando per Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains, provenienti tutti dalla stessa area geografica.

Seattle è, dunque, considerata la patria di questi “poeti” maledetti, le cui opere sono caratterizzate da uno spleen quasi baudelairiano, un’angoscia di vivere, in netta contrapposizione allo spirito d’iniziativa che aveva consentito la nascita di una new economy americana, improntata al modello innovativo del nord-ovest. Amazon, Starbucks, Microsoft, insomma tutte quelle nuove forme di capitalismo post-industriale che hanno di fatto soppiantato il vecchio ordine economico, sono state concepite e create Seattle.

In “Dei fiumi resta il nome” di Matt Briggs (Ad est dell’equatore) di questa città frizzante, dinamica e avanguardia culturale, c’è poco o nulla. I paesaggi metropolitani, i grattacieli, il simbolo di Seattle (il famoso e avveniristico Space Needle celebrato in tante serie tv di successo) cedono il passo a un paesaggio più rurale, selvaggio, incontaminato dove i personaggi vivono in una sorta di limbo, sospesi tra un passato ostile fatto di sogni rivoluzionari infranti e un presente quanto mai incerto.

In questi racconti, pubblicati nel 1999 (ora finalmente tradotti da Fiorenzo Iuliano e consegnati ai lettori italiani), quando Kurt Cobain era già scomparso da qualche anno (peraltro alla stessa età di Jimi Hendrix, anche lui nato a Seattle), il tratto predominante diventa il disagio generazionale di chi resta imprigionato in una vita di provincia piatta e monotona che soffoca tutte le aspirazioni, generando conflitti dilanianti e irrisolvibili.

Da un lato, c’è l’odio/amore verso le terre di origine che sopravvivono nella loro toponomastica mentre, nello scontro generazionale prevale la solitudine, l’emarginazione che allontana i figli, privi di prospettive e ambizioni, dai padri, hippies invecchiati e disillusi.

Le storie sono legate da un filo comune che le tiene tutte insieme, ma potrebbero essere lette anche singolarmente. Sono caratterizzate da una prosa diretta, essenziale ma, al tempo stesso, coinvolgente e affascinante.

I racconti procedono con lo stesso ritmo sincopato di alcuni vecchi brani degli Stones, di Paul Butterfield o dei Jefferson Airplane (che peraltro sono gli unici riferimenti musicali di tutto il testo), con l’imporsi nel corso della narrazione di un controtempo che finisce per sorprendere e spiazzare il lettore.

Il collegamento con il grunge si può al massimo rinvenire nella frustrazione generata dal senso di sconfitta che spinge gli uomini alla ribellione, anche se in questo libro, resta fine a se stessa e per lo più improduttiva, non generando slanci o mutamenti di alcun tipo.

In parte confluiscono nel romanzo di Briggs, le produzioni cinematografiche sperimentali e indipendenti di Gus Van Sant; a livello letterario, viene facile il riferimento a Raymond Carver, anche lui originario dello Stato di Washington, ma forse è più azzeccato il paragone con Richard Ford che ha saputo descrivere, meglio di chiunque altro contemporaneo, la provincia americana inospitale e depressa, dove il boom economico è solo un lontano ricordo e il ritorno a una dimensione più bucolica e meno metropolitana sembra l’unica ancora di salvezza o l’unica opzione possibile.

Insomma, Briggs tratteggia il ritratto di un’America desolata, decadente, rassegnata, ormai distante dall’epoca illusoria della controcultura, in cui non resta che aggrapparsi all’immutabilità dei nomi delle cose, dei luoghi, dei fiumi.

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